sabato 12 marzo 2011

INTELLIGENZA COLLETTIVA

ANNE OTTO psicologia contemporanea n.224 mar – apr 2011


IL GENIO SINGOLO PUÒ ESSERE AFFASCINANTE, MA IL GRUPPO È SPESSO PIÙ SCALTRO DEL MIGLIOR ESPERTO. PER POTER FUNZIONARE IN MANIERA OTTIMALE, PERÒ, L’INTELLIGENZA COLLETTIVA HA BISOGNO DEL CONTESTO GIUSTO.


Un gruppo di lavoro in cui tutti si imbeccano a vicenda, un complesso jazz dove ogni musicista suona la cosa giusta, apparentemente senza bisogno di accordi preliminari, un panel congressuale che produce un gran numero di idee. Ogni volta che si mette al lavoro l'intelligenza collettiva, si hanno risultati sorprendenti. Sia i partecipanti che gli osservatori esterni sentono che l'insieme è maggiore della somma delle parti. Quando opera la "saggezza dei molti", il gruppo sembra diventare un organismo autonomo, che sviluppa processi di pensiero tutti suoi. Ma per ottenere questo tipo d'intelli¬genza collettiva non sempre sono indispensabili i grandi numeri: per far scattare la scintilla basta a volte far lavorare insieme alla soluzione d'un problema due persone che non si conoscono. Dan Schwartz, professore di Pedagogia alla Stanford University, ha sottoposto i suoi studenti a difficili problemi dì intelligenza spaziale, come indovinare il senso di rotazione degli ingranaggi in un meccanismo complesso. Da soli, i soggetti raramente riuscivano a trovare la soluzione giusta. Lavorandoci insieme, in due o più, non solo davano la risposta esatta, ma arrivavano a capire meglio il principio di funzionamen¬to del meccanismo in questione. Quando un problema complesso viene considerato da più lati, grazie alla collaborazione di vari cervelli, è più facile scoprire le regole su cui si fonda.

Quanto alla dimensione del gruppo, non ci sono limiti: possono andar bene anche duemila partecipanti, se si tratta di individuare i modelli e i principi generali che stanno alla base di un problema complesso. Spiega Peter Kruse, docente di Psicologia generale e delle organizzazioni all'Università di Brema: "Analizzando le idee espresse da un grande gruppo, ad esempio i contributi di tutti i collaboratori di un' organizzazione, emerge rapidamente uno schema di fondo". Come esempio cita il laboratorio progettuale condotto dalla sua équipe per delineare il futuro di Brema. Un campione di 120 residenti fu incaricato di elaborare idee in risposta alla domanda su quali fossero i "fattori di successo" e quali gli ostacoli allo sviluppo della città. Gruppi di lavoro di 4 o 5 membri mettevano in rete le loro idee. La proposta collettiva risultò essere quella di Brema come città degli studi, mentre gli ostacoli venivano sistematicamente indicati nella chiusura e nello scarso coraggio della città anseatica.

SE E’ IN GIOCO IL PENSIERO DIVERGENTE I GRANDI GRUPPI HANNO SPESSO UN BUON SUCCESSO


"Attraverso l'intel¬ligenza della massa, in questo caso si sono delineati chiaramente alcuni principi generali di cui forse all'inizio i singoli partecipanti non si rendevano conto", spiega Kruse. I grandi gruppi, per così dire, conoscono la verità circa il sistema nel quale si muovono.

Naturalmente i gruppi molto numerosi non sono validi per qualunque tipo di compito. Se è in gioco il pensiero divergente, cioè la produzione di idee e ragionamenti trasversali, com'è richiesto da problemi che non prevedano una soluzione univoca, i grandi gruppi hanno spesso un buon successo. Se si tratta di sviluppare idee creative per l'utilizzo di una sala comunale o delle possibilità di aumentare il fatturato di un'impresa, la "saggezza della massa" di solito è in grado di generare molte idee e soluzioni. Anche quando, in un secondo momento, si devono scegliere fra tutte quelle proposte le soluzioni migliori, un gruppo numeroso fa la differenza. Tutt'altro è il caso dei problemi in cui esiste una sola risposta esatta: i calcoli complessi, la progettazione di un circuito elettrico, la decifrazione di un enigma esigono il pensiero convergente, focalizzato su un'unica soluzione.Benché anche in questo caso un gruppo possa fornire buone prestazioni, il risultato migliore si ottiene rivolgendosi agli esperti del ramo.

D'altro canto la ricerca sull'intelligenza collettiva ha ripetutamente dimostrato che la massa è imbattibile in un tipo particolare di compiti tipicamente "convergenti": la previsione di eventi futuri, come l'esito di un'elezione, lo sviluppo dell'economia, il risultato di una partita di calcio. In questi casi il risultato è univoco, ma nessuno lo conosce, essendo collocato nel futuro. L'economista Caroline Rudzinski, del Centro di management di Witten, nella Ruhr, nell'ambito di un suo progetto di ricerca ha creato in Internet una "borsa delle opinioni", in cui i partecipanti possono puntare su vari sviluppi futuri. Il sistema funziona come un mercato azionario virtuale: gli iscritti possono avanzare predizioni su eventi come i risultati delle elezioni o il tasso di disoccupazione nel trimestre successivo. Nelle elezioni politiche del 2009 la "saggezza di massa" così intercettata dall'équipe di Rudzinski ha dato previsioni più attendibili della maggior parte degli istituti demoscopici: con uno scostamento medio di appena il 5% dai risultati reali, si collocava al terzo posto nella classifica dell'esattezza dei pronostici. Per avere un termine di raffronto, i sondaggi peggiori presentavano un errore medio del 12%. «I mercati sono in linea di principio stupidi, ma possono essere usati in maniera intelligente», nota Fritz B. Simon, professore di Psicologia delle organizzazioni all'Università di Witten e supervisore del progetto. Ma perché la cosa funziona? Perché i mercati virtuali «permettono di utilizzare un sapere diffuso di cui in partenza non conosciamo la dislocazione», spiega Simon.

La "saggezza della massa" è così attendibile nelle previsioni che le borse virtuali le opinioni sono ormai riconosciute negli Stati Uniti come uno dei normali strumenti di sondaggio preelettorale. Questo aspetto dell'intelligenza collettiva è confermato anche dall'efficacia del ricorso all'aiuto del pubblico da parte dei concorrenti in difficoltà nei quiz a premio come Who Wants to Be a Millionaire? In tutte le versioni del programma (inglese, americana, tedesca, ecc.), le risposte così ottenute sono di solito migliori di quelle che il concorrente riceve telefonando a una sola persona di fiducia.

Che in questi casi la massa riesca così bene a cogliere nel segno dipende anche dal setting, che crea le condizioni preliminari nelle quali il gruppo può dare risposte intelligenti. James Surowiecki, autore di un best seller sull'argomento, così riassume i fattori di successo: indipendenza delle singole opinioni, parità fra tutti i membri del gruppo, composizione eterogenea. Sono esattamente le condizioni rispettate nei mercati virtuali delle previsioni: nessuno dei partecipanti influenza gli altri. non esistono gerarchie o dinamiche di gruppo disturbanti e le persone che intervengono provengono dagli ambienti sociali e professionali più diversi.

Ora, ciò che vale per i mercati virtuali in Internet o per le ricerche scientifiche è speso difficile da realizzare nella vita quotidiana. Chiunque abbia partecipato a un convegno dove tutti partecipanti si parlano addosso a che non basta affatto mettere insieme dieci persone intelligenti per avere un gruppo intelligente. Al contrario, i gruppi sono molto esposti a disturbi di ogni genere: “E’ sempre un'impresa creare una dinamica dì gruppo che sia di sostegno e non di ostacolo al processo produttivo», conclude Kruse. Gli studi sull'efficienza dei gruppi, come l'analisi di 60 gruppi di lavoro condotta da Michael A. Campion, professore di Management alla Purdue University, dimostrano che, oltre alla disponibilità al lavoro di squadra e alla condivisione di certi valori comuni, quello che conta è soprattutto che collaborino persone molto diverse, con ruoli distinti e un background etnico, sociale e professionale eterogeneo.

Un esperimento condotto al'Università del Michigan da Scott Page, studioso dei sistemi complessi, ha dimostrato come, di fronte a un compito di soluzione di problemi, un gruppo formato solo da persone di intelligenza superiore alla media riuscisse peggio di uno in cui menti molto brillanti erano abbinate a individui del tutto ordinari. Allo stesso modo, da un recente studio di un'équipe tedesco coreana (Kearney, Gebert e Voelpel, 2009), risulta che in certe condizioni una squadra formata da persone di età o di formazione diversa è più produttiva dì un gruppo omogeneo, inoltre, la coesione è maggiore. Lo studio, molto ampio, condotto su un totale dì 83 gruppi di lavoro operanti in vari settori (informatica, assicurazioni, media e spettacolo), mostra che i gruppi eterogenei funzionano meglio di quelli omogenei se i partecipanti si avventurano volentieri su un terreno intellettualmente vergine e operano in un ambito che propone compiti impegnativi. Se invece i membri non gradiscono le sfide intellettuali, una squadra mista non funziona al meglio. In termini generali si può dire: se c'è da inventare idee e far fronte a un impegno complesso, conviene rivolgersi a un gruppo formato da persone anche molto diverse, che non abbiano paura di pensare cose nuove e complicate e che alla fine sapranno trovare la risposta.

IN CERTI COMPITI L'INTELLIGENZA DIFFUSA DEI MOLTI È MIGLIORE DI QUELLA DEGLI ESPERTI. PER QUESTO NEI QUIZ TELEVISIVI L'AIUTO DEL PUBBLICO È IL PIÙ EFFICACE

Ma se è così chiaro che i grandi gruppi eterogenei sono più intelligenti di quelli piccoli e omogenei, è sorprendente che nelle organizzazioni pubbliche e private sì continui quasi sempre a lavorare con piccole squadre di esperti, nelle quali sì incontrano persone che hanno più o meno tutte la stessa formazione e lo stesso tipo di competenza specialistica. Se poi questi esperti si trovano a dover lavorare sotto pressione e in isolamento, si arriva facilmente a decisioni vistosamente sbagliate. Già negli anni '70 uno studioso di psicologia sociale come Irving Janis dimostrò che questo tipo di lavoro d'équipe non fa che rinforzare nei partecipanti un modello di pensiero uniforme, che sfocia in una visione molto ristretta, a cannocchiale. Sappiamo che il fenomeno del "pensiero di gruppo", come lo chiama Janis, è responsabile di errori di strategia militare, come l'attacco americano a Cuba. La difficoltà di aprire ai contributi esterni questi circoli consolidati di esperti dipende soprattutto dalla struttura gerarchica delle aziende e delle organizzazioni in genere: «Se l'impresa si apre all'intelligenza collettiva, può succedere che per qualche tempo una rete di gruppo orizzontale prenda il sopravvento sulla leadership verticale nei processi decisionali», nota Kruse sulla base della sua esperienza con i grandi gruppi. Su questo punto molte imprese devono ancora imparare per prima cosa a fidarsi del processo sistemico, invece di attenersi alla vecchia struttura gerarchica di potere.

LA SAGGEZZA COLLETTIVA DEVE ESSERE INTERCETTATA CON I METODI GIUSTI

Naturalmente, un grande gruppo incaricato di risolvere un problema, raccogliere idee e discutere le prospettive future di un'impresa non può operare senza guida. Nella maggior parte dei casi è necessario l'intervento di leader e moderatori competenti. C'è poi un altro fattore importante: per sfruttare con successo le risorse dell'intelligenza collettiva, i metodi esistenti si devono impiegare con la massima precisione possibile. Keith Sawyer, della Washington University di St. Louis, lo illustra chiaramente con l'esempio del brainstorming. A suo avviso questo metodo, adattissimo alla ricerca collettiva di idee nuove, è caduto in grave discredito perché spesso viene applicato in maniera errata. Analizzando la letteratura scientifica sull'argomento, Sawyer conclude che per essere efficace una seduta di brainstorming dovrebbe sempre iniziare con una fase silenziosa di almeno cinque minuti, durante i quali ogni partecipante scrive le idee che gli passano per la testa. Con questa tecnica, detta "brainwriting", si evitano vari processi di gruppo indesiderati che si verificano nel brainstorming tradizionale: se tutti parlano insieme, si forma troppo presto un'opinione di gruppo che è modellata non dal membro più intelligente, ma dal più loquace. Se invece ognuno raccoglie prima le idee per conto proprio e, solo in un secondo momento, queste vengono condivise e discusse, anche le proposte dei più timidi avranno qualche probabilità. Secondo Sawyer, soltanto in questo modo si riesce a intercettare davvero l'intelligenza collettiva presente nel gruppo.

Anche nella maggior parte dei metodi in uso con i grandi gruppi si tiene conto in qualche modo della nozione ormai acquisita che fissare le idee sulla carta impedisce che si sviluppino certe dinamiche di gruppo negative. Nel cosiddetto "World Café", ad esempio, fino a mille partecipanti si raccolgono in piccoli gruppi intorno a tavolini da bistrot distribuiti in un ampio spazio comune e scrivono le loro proposte sulle tovaglie di carta. Allo stesso modo nel metodo "Open Space" si formano piccoli gruppi di lavoro, in cui ciascuno dei partecipanti si accosta al tema proposto munito di lavagne a fogli mobili. Entrambe le tecniche sono adatte soprattutto alla generazione di idee e alla soluzione di problemi. D'altra parte tutti i metodi di gruppo, nati per lo più nell'ambito del counseling sistemico, hanno aperto la strada all'utilizzo dell'intelligenza di gruppo. E da molto tempo che in questa ottica i consulenti cercano di coinvolgere l'intero sistema, in modo che prendano la parola possibilmente tutti gli interessati, ad esempio tutti i collaboratori di un'impresa, così da sviluppare un'organizzazione più lungimirante e di ampie vedute. Oggi i metodi messi a punto da pionieri del settore, come Harrison Owen e Marvin Weisbrod, fanno parte integrante del repertorio di molti consulenti aziendali.

Naturalmente è paradossale che per far funzionare i processi dell'intelligenza collettiva sia spesso necessaria la presenza in sede di un'intera équipe di esperti e consulenti.

Cosa succede a lasciar procedere in modo autonomo un sistema potenzialmente intelligente, peraltro, lo si vede oggi in Internet. Per molti esperti la rete è da tempo un esempio impressionante di intelligenza collettiva in funzione: fra gli altri Barry Libert, autorevole consulente americano di organizzazione aziendale, ritrova in essa continue conferme di tale "saggezza di massa".

C'è, per cominciare, Wikipedia, l'enciclopedia collettiva cui migliaia di liberi collaboratori indipendenti conferiscono pezzi del patrimonio universale del sapere. Un altro esempio riuscito è rappresentato dai progetti Open Source, come il sistema operativo Li¬nux, che può essere utilizzato gratuitamente e viene gestito e perfezionato regolarmente da una comunità di informatici appassionati. Tuttavia in molte altre piattaforme il flusso d'informazioni generato da milioni di internauti crea grossi problemi: “Al momento manca in Internet una buona funzione valutativa”, nota Kruse. La rete attualmente è in grado di misurare soprattutto le quantità: i motori di ricerca indirizzano l'utente ai siti cliccati più spesso. In queste condizioni è un po' difficile parlare di intelligenza collettiva.

C'è però una cosa che si impara dalla rete: “Il libero accesso all'informazione in Internet è uno dei principi che andrebbero trasferiti alle organizzazioni, ai gruppi di lavoro e alle imprese”, afferma Kruse. Anche l'economista Sven Voelpel della Jacobs Uni¬versity di Brema sostiene che la paura di divulgare informazioni importanti, dettata da un modello di pensiero competitivo, sia destinata ad allentarsi sempre di più. In ogni caso, secondo Voelpel, non bisogna rammaricarsi di aver trasmesso il proprio sapere. Nei suoi lavori sulla gestione del sapere ha accertato ripetutamente che la maggior parte delle persone diffonde volentieri in un'impresa il proprio parere specialistico: “Per di più, nel corso delle mie ricerche mi sono convinto che la comunicazione di idee e saperi giovi piuttosto alla carriera”, dice Voelpel, che così spiega il fenomeno: “Se mi dai una caramella e io te ne do un'altra, abbiamo una caramella per uno. Se mi dai un'idea e io te ne do una, ne abbiamo due ciascuno”. Il sapere, quindi, è l'unica cosa che si moltiplica quando viene diviso.

Riferimenti bibliografici

KEARNEY E., GEBERT D., VOELPEL S. C. (2009),
When and how diversity benefits teams: The importance of team members' need for cognition, Academy of Management Journal, 52/3, 581 597.

KRIZ W. C., NOBAUER B. (2002), Teamkompetenz. Konzepte, Trainingsmethoden, Vandenhoeck & Ruprecht, Praxis.

LIBERT B., SPECTOR J. (2008), Vide wissen mehr als einer. So nutzen Unternehmen das Know how der Business Communitys, Redline Wirtschaft, Munchen.

PAGE S. E. (2007), The difference. How the power of diversity creates better groups, firms, schools, and societies, University Press, Princeton.

SAWYER K. (2007), Group genius. The crea¬tive power of collaboration, Basic Books, Cambridge.

SELINGER R. (2008), Einfuhrung in Gro¬ssgruppenmethoden, Carl Auer Systeme, Heidelberg.

SUROWIECKI J. (2007), Die Weisheit der Vielen. Warum Gruppen kluger sind als Einzelne, Goldmann, München.

© PSYCHOLOGIE HEUTE, GIUGNO, 2010, pp. 34 39; TRADUZIONE ITALIANA DI GABRIELE NOFERI.

giovedì 3 marzo 2011

Spesso mi sento domandare:

Come facciamo a rafforzare l'impegno del top management e il coinvolgimento per l'attuazione del Total Productive Maintenance (TPM)?
Questa è una grande questione generale di chiedere qualsiasi sforzo per stabilire l'eccellenza, mantenere l'eccellenza o di trasformare l'eccellenza di un livello ancora più alto. Specificamente per il TPM, ci aspettiamo un elevato livello di impegno totale ad essere costruito in istruzione e roll out del programma, poiché, come suggerisce il nome è Total PM. Quindi il punto di partenza può essere quello di esaminare in che misura la fase di istruzione spiega i ruoli di gestione in supporto al TPM.

Anche ammettendo questa formazione è stata fatta in maniera adeguata, l'apprendimento dei loro ruoli di gestione TPM a impegnarsi pienamente possono ancora essere intellettuali, piuttosto che cinestesico.
Naturalmente il TPM può essere ampliato al di là di fabbriche e macchine per ufficio TPM include la distribuzione dei costi e tutti gli aspetti della gestione di un business, che è un altro aspetto della voce "totale". Operazioni di produzione a seconda macchine e attrezzature per aggiungere valore. Operazioni non di produzione sono altri beni e servizi.

La prima cosa da fare è avere le mani sporche. Non c'è un modo migliore per migliorare l'impegno complessivo di gestione che sporcarsi. Bisogna sporcarsi, al fine di ottenere pulito. Questo può sembrare un po 'zen, ma in pratica la pulizia, l'ispezione,la riparazione e il restauro di attrezzature e processi per lavorare in buone condizioni è l'attività fondamentale del TPM. Pulizia non è il lavoro di manutenzione. Non è il lavoro degli operatori. il kaizen non è il lavoro degli ingegneri, è 'il lavoro di qualcuno che capisce quello che il T in TPM rappresenta. Pulizia e cura dei beni crea intimità, la familiarità, un senso di responsabilità che è essenziale per il miglioramento continuo.

"Perché prima della partenza si vuole passare attraverso il coinvolgimento dei dirigenti per la pulizia?". Perché non andare nella direzione opposta e coinvolgere i lavoratori in prima linea nel lavoro del manager? Se l'obiettivo è il coinvolgimento totale e la messa insieme di persone provenienti da diversi livelli per l'organizzazione a lavorare verso un obiettivo comune, non sarebbe più facile per tutti noi di incontrarci in comode poltrone della suite executive a guardare i grafici, piuttosto che nella sporcizia calore e il rumore del reparto?

In una trasformazione lean una parte significativa del cambiamento è quello di dare ai lavoratori in prima linea e dei capigruppo la possibilità di prendere decisioni sulla gestione e migliorare i propri processi su una base quotidiana. Questo richiede migliorare le competenze, consapevolezza e conoscenza dei lavoratori e coinvolge alcuni lavori con le carte, sale conferenze e presentazioni. Quando responsabilità e leadership vengono spinti al fronte, dove si può intervenire alla base delle informazioni in diretta, l'apprendimento e l'insegnamento è fatto meglio e raggiunge ottimi risultati.

Perché questo impegno di prima linea nella gestione quotidiana e del miglioramento diventi un arricchimento del lavoro piuttosto che l'intensificazione del lavoro, il ruolo del leader deve cambiare. Si tratta di definire la responsabilità del leader di andare al fronte, al fine di sperimentare la realtà giorno per giorno in modo che si possano sostenere gli sforzi di gestione quotidiana. Il modo migliore per aumentare il livello di impegno è quello di imparare attraverso l'esperienza di prima mano i problemi esistenti in prima linea. Molti di loro sono facilmente risolti una volta che le persone sono in grado di avere una comprensione comune della situazione. Nel TPM molti dei problemi sono legati alle macchine sporche e mal tenute.
Migliorare la gestione totale richiede impegno in modo da poter esporre i problemi, eliminando partendo dalla base, la sporcizia. Questo sporco può anche uscire a livello figurativo, nascondendo i segni di deterioramento forzato all'interno dei sistemi immateriali dell'organizzazione e dei processi.

Nel TPM, una questione utile per testare l'impegno totale di gestione può essere "Quante volte ti lavi le mani oggi?"

lunedì 28 febbraio 2011

Da Lean Edge: Caso Toyota

Questa settimana la domanda su The Lean Edge è la seguente:

Il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti ha liberato Toyota da tutte le accuse sulla sicurezza oltre a quelle identificate e gestite prima della crisi della sicurezza. Ma Toyota ha, nonostante tutto, riconosciuto difficoltà interne sia nel crescere troppo velocemente e nel non ascoltare abbastanza i clienti. Che cosa dovremmo imparare da questo intero episodio?

Se non l’avete già sentito prima, la Toyota è stata prosciolta, dopo 10 mesi di profonde ricerche e un sacco di soldi spesi, da tutte le accuse per i problemi sulla sicurezza dei propri veicoli, di cui avevo parlato anch’io su queste pagine.

Cosa dobbiamo imparare?

Penso che non impariamo niente di nuovo riguardo a Toyota. Ha agito esattamente come potevamo aspettarci. Ha utilizzato questa crisi per:

* migliorare ulteriormente le operazioni interne sfruttando la crisi come incentivo
* far tornare tutti sulla stessa linea d’onda e allinearli tutti verso la sua visione
* ridefinire le sue priorità e processi
* migliorare ulteriormente la sua capacità di problem solving e gestione delle crisi.

Quello che è sicuro è che la Toyota da questa crisi, come anche da tutte le grosse crisi che ha avuto in passato, uscira ancora più forte di prima. E’ tornata alle origini, si è autoinvestigata e ha scoperto molti problemi, soprattutto nella comunicazione interna e verso i clienti, che adesso sono stati affrontati, gestiti e sistemati. Ha perso a breve termine, ma ci ha guadagnato, e anche molto, a lungo termine…

Nessuna sorpresa dunque.

Invece chi ci ha perso sicuramente sono tutti coloro che hanno attaccato la Toyota in quanto era diventata troppo forte. I problemi che hanno causato le falle nella sicurezza erano dovuti a molteplici cause al di fuori della Toyota e soprattutto dovuti al utilizzo errato o manutenzione mancata dei veicoli da parte degli utenti. E quando sono venuti a luce alcuni casi, sulla Toyota è stata rovesciata una valanga di attacchi, insulti ecc. Ma adesso tutti questi che l’hanno attaccata non si sentono più… Fino alla prossima saga con qualche nuovo problema, magari di qualche altra casa automobilistica. I media sono terribili per questo, e questa situazione è stata puramente mediatica. Bisognava sconfiggere il gigante dell’oriente.

Ma non hanno pensato alla storia di questa società e alla sua cultura. E la storia parla chiaro: le crisi a breve termine la fa solo migliorare di più. E questo fatto è sicuramente un bene per il lean thinking, per l’industria automobilistica e per gli utenti, che possono capire la filosofia e cultura della Toyota e applicarla anche nelle proprie aziende.

E’ un male invece per i suoi oppositori che la volevano giù e adesso dovranno affrontarla ancora più forte di prima…

Articolo tratto da ENCOB BLOG

domenica 27 febbraio 2011

Kamishibai, in cosa consiste e da dove proviene

Per puro caso mi sono imbattuto in un libro in mostra presso la biblioteca comunale intitolata Manga Kamishibai: L'arte della carta giapponese. Si tratta di una storia della forma artistica teatrale della carta dal 1930 ai tempi moderni. Il sistema di gestione per attività di controllo visivo standard all'interno del Toyota Production System prende il nome dal Kamishibai stesso. Per coloro che non hanno familiarità con questo strumento di gestione snella posso consigliare la lettura “Che cosa è un Kamishibai?” One point lesson = Kamishibai.

Gli stili e gli oggetti di Kamishibai sono abbastanza vari e anche includono gli annunci di notizie, come la II Guerra Mondiale, l’annuncio dell’occupazione americana o della nuova costituzione del Giappone

Il Kamishibai è ancora uno strumento attivo per l'educazione della prima infanzia.
Ci sono sempre meno persone che vivono la creazione o l'esecuzione di Kamishibai in Giappone. Nel libro Manga Kamishibai l'autore cita un peformer Kamishibai che ha incontrato nel 1980, il signor Morishita:

"Kamishibai sono una strada a doppio senso, in contrapposizione alla televisione, che è una forma a senso unico di comunicazione. Inoltre, Kamishibai sono una fonte di insegnamento morale ... Oggi la televisione non ha alcun rilievo morale ... ed è qualcosa che il i bambini hanno bisogno.

Nel Lean Management system Kamishibai facilita anche la comunicazione bidirezionale tra le persone che fanno il lavoro e il leader che controlla che gli standard siano mantenuti. Come un modo per rafforzare l'eliminazione degli sprechi e il rispetto per le persone, forse possiamo dire che esso serve anche come una forma di lavoro teaching.Standard work, gestione quotidiana, camminata nel Gemba con 5 perché, dialoghi per l'insegnamento e la soluzione dei problemi sono tutti elementi che rendono il sistema Kamishibai di successo nelle trasformazioni rendendole più sostenibili. Alla fine il pensiero è ancora parlare di gente e fare la cosa giusta: la morale e l'etica. Dopo più di 80 anni l'uomo umile Kamishibai ha ancora qualcosa da insegnarci.

Citazione

"Più l'uomo avanza nella sua evoluzione spirituale, più mi appare certo che il sentiero verso una religiosità genuina non passa per la paura della vita e la paura della morte, o per una fede cieca, ma attraverso gli sforzi compiuti in direzione di una conoscenza razionale."

domenica 20 febbraio 2011

LA CREATIVITA’ IN AZIENDA AI GIORNI NOSTRI

DAL CAOS ALL’ECCELLENZA

Il successo ha una durata effimera ed il caos è all’angolo, pronto a subentrare a ciò che spesso viene chiamato vittoria. Accelerazione del cambiamento e complessità costituiscono una sfida per le organizzazioni che perseguono l’eccellenza come principio di sviluppo.

ACCELERAZIONE DEL CAMBIAMENTO E COMPLESSITA’

Tom Peters è un riferimento grazie alle opere scritte con R. Waterman Alla ricerca dell’eccellenza, cui ha fatto seguire un secondo volume intitolato La passione dell’eccellenza.
Queste opere illustrano un certo numero d’idee chiave sulla direzione, basate essenzialmente sul buon senso, confortate da una serie d’esempi molto precisi, riferiti ad aziende che hanno avuto successo.
Una ricerca successiva, dopo tre anni, verificò che più di un terzo di esse erano fallite. Questa scoperta permise di comprendere che l’eccellenza da sola non bastava. E’ necessario che le aziende, i dirigenti e il personale siano capaci di mettere in atto delle caratteristiche di flessibilità, d’adattabilità, d’opportunismo e di creatività che permettano loro di cavalcare il caos.

La parola caos può sembrare eccessiva, ma è stata scelta di proposito per il suo significato etimologico di aprirsi, spalancarsi.

La parola ricorda l’idea primordiale dello stato che precede la biblica creazione del mondo, e pone l’accento due tendenze su cui tanti osservatori sembrano d’accordo:
a) l’accelerazione del cambiamento e
b) la complessità.

• Anzitutto l’accelerazione del cambiamento. Questo cam-biamento si manifesta tanto all’interno degli Stati, nella società, nella famiglia, nelle organizzazioni, quanto a livello internazionale. Si è parlato a sufficienza della globalizzazione dell’economia, e oggi è un fenomeno irreversibile.
Si è passati da un mondo bipolare ad uno almeno tetrapolare, dove il terzo polo è il Giappone ed il quarto l’Europa unita. S’intravedono, però, degli altri poli d’influenza con cui bisognerà collaborare, la Corea, l’India, la Cina e forse, domani, il Brasile.

• la seconda tendenza riguarda la complessità. Il mondo non è né più semplice né più complicato di quanto non lo fosse un secolo fa.
E’ nuova la presa di coscienza di questa complessità e la necessità di farvi fronte, in una realtà in cui tutto è in relazione con tutto.
Ricercare soluzioni semplici ad ogni problema è oggi un’illusione auspicabile. Comprendere e vivere lo spirito del sistema è una necessità assoluta per la sopravvivenza.


L’azienda può essere considerata oggi come un luogo permanente di risoluzione di problemi pluri-disciplinari (marketing, finanza, tecnologia, umani, sociali...).

Ecco una serie d’atteggiamenti che permettono d’affrontare il caso e di trarne profitto:

• accettare d’uscire dalla propria torre d’avorio;
• essere pronti a adattarsi al cambiamento;
• essere flessibili, avere accesso a più linguaggi;
• sapersi assumere dei rischi;
• dar fiducia alle proprie idee e a quelle degli altri;
• saper tradurre le esperienze negative in opportunità;
• praticare il diritto all’errore;
• accettare il gioco della trasparenza e delle porte aperte;
• praticare il gioco di squadra.

L’ECCELLENZA: UN SUPERAMENTO CONTINUO

L’eccellenza è una qualità che si è trasformata in principio di management. E’ necessaria per superare le barriere delle conoscenze specialistiche e l’apertura delle frontiere, poiché per definizione l’eccellenza è relativa, non si può mai raggiungere. Ciò che può sembrare eccellente oggi, in un dato contesto, lo è assai meno in una situazione vicino ed in un futuro prossimo o lontano.
La sua forza e la sua debolezza non sono altro che la necessità di un continuo migliorarsi “ Oggi meglio di ieri, domani meglio di oggi”.
L’eccellenza imposta dall’alto è vissuta come una critica delle mediocrità ed una volontà di colpevolizzare per ottenere un maggior impegno dei collaboratori. L’eccellenza riscoperta da ciascuno e vissuta a tutti i livelli diventa invece il mezzo per infondere in ciascuno uno spirito d’impresa, per trasformare ogni lavoratore in un imprenditore.
Nuovo è ciò che non conosciamo, che non c’era prima, che è cambiato. Ha espresso bene questo concetto Eraclito
Non ti bagnerai mai due volte nella stessa acqua di un fiume, vi è una sola cosa che non cambia, il cambiamento

perché tutto cambia continuamente, noi stessi, in due momenti diversi, non siamo più la stessa persona. La stessa cosa, in due momenti diversi, non è più identica.


LA NOZIONE DEL NUOVO

Il nuovo è prodotto continuamente da quel che ci circonda e da noi stessi.
In altre parole, nuovo è diventato un tema alla moda dal momento in cui la società e la situazione di concorrenza hanno stimolato tra gli imprenditori l’idea di presentarsi sul mercato con proposte originali e, per merito di una novità, ai bisogni del mercato.
Cosa è nuovo per l’individuo?
È qualcosa di differente. Gordon e Prince, gli inventori della sinettica affermano che il nostro atteggiamento naturale verso le novità è di guardarle come se ci fossero familiari, ricollegandole a cose che già conosciamo. Suggeriscono quindi di guardare le cose che ci sono familiari come se ci fossero del tutto nuove.
Quel che percepiamo come nuovo è quindi ciò che presenta uno o più gradi di differenza in rapporto a qualcosa che conosciamo già. Possiamo reagire alla novità con l’indifferenza, l’accettazione o il rifiuto. Possiamo viverla deliberatamente perché ci piace, subirla perché c’è imposta dall’ambiente, o anche semplicemente perché vi siamo obbligati dalla direzione dell’azienda in cui lavoriamo.

NOVITA' E RESISTENZA AL CAMBIAMENTO

Parliamo ora della nozione di resistenza al cambiamento, che è un ostacolo reale in cui s’imbatte ogni manager o responsabile.
Un altro modo di vivere il cambiamento è di crearlo, d’inventarlo, ed è proprio dell’atteggiamento creativo confrontarsi con l’esistente. Per definizione il creativo è molto attento alle novità. I suoi sensi sono allenati a percepire tutto, quindi a cogliere meglio il cambiamento e la differenza.

Le novità che inventiamo noi, le vogliamo condividere. Questa è la funzione degli innovatori, sia si tratti di generalisti (imprenditori, direttori generali, dirigenti marketing, di-rigenti risorse umane ecc.) per i quali la gestione del cambiamento è uno dei compiti, o di specialisti, per i quali l’innovazione è la principale se non unica missione. In tutti i casi queste persone dovranno stimolare, perché l’innovazione non può essere imposta. Un cambiamento imposto è destinato all’insuccesso, se non immediato, certamente a termine. Infatti, si produrranno in loro dei meccanismi di auto-sabotaggio che fa-ranno sì che la sua applicazione sia deludente.

STIMOLARE PER AIUTARE AL CAMBIAMENTO

Si può stimolare in diversi modi. Ad esempio, far paragoni, anche semplicemente la presentazione di certi risultati di gestione in confronto con ciò che era stato fatto nel passato e ciò che si sperava di fare. Può essere semplicemente un avvenimento disastroso. In ogni caso, l’innovatore dovrà prestare attenzione a che questa stimolazione non sia vissuta negativamente, dovrà fare in modo che gli effetti positivi superino largamente quelli negativi, perché se l’atteggiamento ottenuto è quello del fatalismo o della disperazione, sarà stato un fallimento. Si tratta qui di provocare un sentimento di rivolta contro l’avvenimento ed un desiderio d’affrontarlo, per superarlo.
Un altro modo di stimolare è l’incoraggiamento. L’incoraggiamento deve manifestarsi tanto dalla Direzione generale, quanto in termini d’un aiuto reale e concreto.
Un altro modo ancora è d’invogliare. Una comunicazione ben studiata può esaltare per la sua novità, può risvegliare la curiosità, i desideri e portare le persone ad accettare il cambiamento.

Un atteggiamento creativo unito a tecniche di creatività nel quotidiano sono essenziali per l’innovazione tecnica.
Queste misure saranno stimolo e sostegno di-retto dell’innovazione fra i valori chiave dell’organizzazione.
Si potrebbe obiettare che sono anni che i direttori generali parlano d’innovazione, che è rarissimo trovare una strategia aziendale nella quale non sia presente l’innovazione come una delle chiavi del successo del presente e del futuro.
Queste forme di management sono del tutto insufficienti. Una parola d’ordine diviene un valore quando è provato che le persone che l’hanno lanciata vi credono, cioè quando conformano il loro comportamento alle parole.
In altri termini, l’innovazione diviene un valore-chiave dell’organizzazione quando gli innovatori sono riconosciuti e premiati.

Dal momento in cui non solo si permette loro d’assumersi dei rischi, di commettere degli errori, d’uscire dai sentieri battuti, ma anche li si presenta agli altri come dei modelli e non come dei marginali la cui utilità costringe a sopportarne l’eccentricità. Così l’innovazione diventa essa stessa una delle funzioni normali.

APRIRSI AL MONDO ATTRAVERSO LA CREATIVITA'

Il presidente dì una società ha dichiarato recentemente in un’intervista “ Chi non ha ambizioni europee, non ha affatto ambizioni”.
Questa frase sembra eccessivamente limitativa, poiché l’Europa non è che una parte del mondo, aperta al resto del mondo. La dimensione internazionale fa parte della nostra vita quotidiana e sarebbe difficile trovare una casa in Italia in cui non vi siano prodotti provenienti da tre, quattro o più paesi diversi.
L’irruzione del mondo nella vita quotidiana non è ancora stata pienamente integrata nella vita dell’impresa e tuttavia questa è una necessità, e non solo per quanti si occupano di strategie a medio e lungo termine.

Mettersi all’unisono con le culture dell’universo è un compito reso possibile dalla creatività. In effetti, essere creativo è saper comunicare con l’altro, cominciando dall’altro e continuando col nostro collega, il nostro collaboratore.
Essere creativo è essere capace di sintonizzarsi con gli altri e, per passaggi successivi, con lo straniero. Arrivare a questa flessibilità mentale, in questo modo d’operare non più lineare e sequenziale, ma multiplo e sincrono, è la sfida che dobbiamo vincere e che affronteremo con un piacere crescente dal momento in cui accetteremo d’usare una parte più grande delle risorse del nostro cervello.
Con lo sviluppo dell’acutezza della percezione, con il superamento dei pregiudizi che rinforzano l’etnocentrismo di ciascuna delle vecchie nazioni europee, con il rispetto a priori verso tutto ciò che è nuovo e diverso, nasce un uomo nuovo che, pur riaffermando la sua cultura nazionale o regionale, sa non soltanto accettare e rispettare la cultura degli altri, ma anche trovare in essa una sorgente d’arricchimento infinita.
Inoltre, la capacità di riferirsi alle culture del passato e del presente per creare quelle del futuro è un rimedio praticamente insostituibile per diminuire lo stress dell’uomo moderno.

UN NUOVO STILE DI DIREZIONE

L’introduzione della creatività nelle organizzazioni è strettamente collegata ad un nuovo stile di direzione. I numerosi libri usciti recentemente su questo argomento hanno in comune quello che è definita la piramide rovesciata.
In altre parole, lo schema gerarchico classico che prevede al vertice un uomo accreditato del possesso della conoscenza, che dà ordini, ritrasmessi dagli ingranaggi della gerarchia alla base che deve eseguirli, è superato o in via di rapido superamento anche nelle organizzazioni più tradizionali.
Nelle nuove organizzazioni oggi è attuato il management matriciale, modello direzionale in cui un numero sempre maggiore di persone è collegato a due poli d’influenza, uno gerarchico, l’altro funzionale. Domani si andrà verso un management multipolare.
Oltre al collegamento ai due poli sopra citati, tutti i quadri apparterranno a gruppi-progetto di durata più o meno lunga, gruppi-progetto multi-disciplinari cui sarà affidata una missione da compiere, con delle risorse tecniche, intellettuali e di tempo.

DALL’ADESIONE ALLA PARTECIPAZIONE

I dirigenti non sono preparati a questo stile di comando. Sono coscienti del fatto che il modo classico di dare ordini sia ormai obsoleto, ma non hanno ancora imparato a dare istruzioni in modo che, da un lato, i loro orientamenti siano capiti perfettamente e, dall’altro, incontrino più che un’adesione, una partecipazione da parte delle persone che le ricevono.
Il dirigente, oggi, deve quindi diventare un vero animatore, deve dare l’incitamento e l’orientamento per stimolare l’intelligenza, la creatività e l’energia dei collaboratori perché questi usino le loro risorse e le focalizzino nella direzione corretta.
Tipico questo, dell’opera creativa.

Nelle nuove regole del gioco, il dirigente dà i riferimenti di base ed indica i criteri di riuscita. I collaboratori mettono le sue indicazioni a fronte delle loro intuizioni, usano le proprie risorse, la competenza e l’immaginazione, individualmente ed in gruppo, per proporre e in seguito realizzare idee nuove pertinenti ed efficaci.

DIVENTARE ANIMATORI CREATIVI


La necessità del dirigente, di diventare un animatore creativo, viene incontro ad un’esigenza crescente del personale di non essere ridotto al semplice ruolo d’esecutore.
Questo vuol dire che i collaboratori debbono poter dare, il più sovente possibile, un contributo alla definizione dei compiti e dei processi che vengono loro proposti. Per evitare tanto la frustrazione che la ribellione scoperta o larvata, è importante che il dirigente definisca una regola del gioco e trasmetta ai collaboratori degli stru-menti mentali che permettano loro di praticarla; ciò che si vede già realizzare in alcune organizzazioni di punta.
Allora, come aiutare il dirigente o il responsabile ad interpretare questo ruolo?

LA CREATIVITA’, UN NUOVO DISCORSO SUL METODO

I responsabili dovranno imparare una griglia di lettu-ra del comportamento umano, facendo loro prendere coscienza del fatto che la pura razionalità porta all’irrazionalità.
L’essere umano non è solo l’emisfero sinistro del cervello totalmente dedicato alla raccolta obiettiva dei fatti e alla loro interpretazioni deduttiva, ma anche quello destro della sensibilità, delle emozioni. Inoltre, l’individuo, ogni individuo ha anche dei valori.
Il risultato è lo stesso processo del pensiero, il frutto di un’interazione fra le varie parti dell’Io. Il dirigente e i responsabili hanno interesse a conoscere, per capire, il proprio funzionamento e quello altrui.
Hanno anche bisogno di scoprire la complessità e la ricchezza della comunicazione, di trovare le fonti dell’energia umana ed i mezzi per evitare di bloccarla o dilapidarla, e le tecniche o gli atteggiamenti che possono liberarla e svilupparla.
Occorre inoltre che diventi un modello coerente.
In conclusione, l’idea chiave per un nuovo stile d’anima-zione passa attraverso l’importanza accordata da chi ha responsabilità di dirigere alla instaurazione di condizioni atte a facilitare il ricorso alla creatività per tutti e sempre.
Questo è il prezzo che le organizzazioni degli anni 2000 devono pagare per diventare più innovatrici.
Innanzi tutto, consigliare al dirigente e ai responsabili d’impegnare la propria responsabilità personale, sapendo che un comportamento innovativo non si presenta spontaneamente e che occorrerà che egli incoraggi con parole ed azioni i comportamenti creativi dei subordinati.
Si dovranno riconoscere le differenze individuali e discernere i potenziali di ciascuno per far loro comprendere i compiti e gli obiet-tivi da raggiungere.
Questo farà si che possa promuovere la responsabilità individuale e la maturità di ognuno.
Se le persone hanno l’impressione di non avere o di avere poco controllo sul loro ambiente, sviluppano dei comportamenti passivi, conformisti ed immaturi.
I responsabili dovranno assicurarsi che le idee innovative siano tra-smesse al livello più alto possibile e non dovranno trascurare i feedback., ponendo degli obiettivi ragionevolmente impegnativi, dando dei compiti che stimolino il sentimento di crescita personale e professionale delle persone con cui lavorano. La nozione di realizzazione è molto importante.


I responsabili dovranno anche instaurare un atteggiamento sano di fronte all’insuccesso, e considerare quest’ultimo come un’occasione d’apprendimento.

LAVORO E FORMAZIONE

Il dilemma, oggi, è crescere culturalmente o perire. Questo vale anche per le organizzazioni.
Stiamo uscendo da un mito che ci è già costato molto caro, cioè che la formazione e l’educazione siano qualcosa che riguardi l’infanzia e l’adolescenza e che l’adulto, nel senso proprio del termine, significhi essere arrivati al termine della crescita.
Le grandi scuole ed i diplomi non hanno fatto altro che rinforzare questo mito ed ancor oggi non è raro incontrare dei dirigenti o dei responsabili che ritengono che l’iscriversi ad un seminario di formazione corrisponda a confessare la loro imperfezione.
La nozione di formazione permanente è stata inizialmente sviluppata per gli altri. Il suo sviluppo esponenziale è una cosa buona, e non soltanto per gli istituti di formazione. Ma al tempo stesso, appaiono i limiti: la quantità delle nuove conoscenze da acquisire per combattere ciò che è stato definito l’esplosione dell’ignoranza, la necessità d’apprendere le tecniche di direzione, d’aggiornarle e completarle, fa sì che alcuni futurologi abbiano già previsto la data in cui ogni quadro dell’organizzazione passerà più tempo a formarsi che a produrre. Cosa evidentemente inaccettabile, ma che sarebbe anche inefficace.

La formazione, come è concepita e praticata oggi, si iscrive in uno schema sequenziale di tipo tayloristico: Lavoro o mi formo.
Il seminario si presenta in questo contesto come la parentesi pedagogica in cui ci si ricarica prima di ritornare ai compiti produttivi.
Sicuramente questa parentesi è estremamente utile e resterà indispensabile per ottenere de-terminati effetti di trasformazione rapidi e intensi, al contempo si vede l’opportunità ed anche la necessità di non creare una frattura netta fra il momento in cui si impara e quello in cui si agisce.
Nella realtà, in una normale settimana di lavoro, si hanno numerose occasioni d’apprendere. Ne cogliamo qualcuna e lasciamo sfuggire le altre: donde il concetto nuovo di formazione permanente.

Il semplice mantenimento del nostro organismo in buone condizioni di funzionamento è una conseguenza dell’apprendimento costante. Studi neurofisiologici recenti hanno mostrato che lo stato di equilibrio non esiste. O ci sviluppiamo e cresciamo, o ci restringiamo e ci raggrinziamo, in poche parole invecchiamo.

REINVENTARE IL LAVORO ATTRAVERSO LA CREATIVITA’ E IL PIACERE

Il termine recworking è stato inventato nel corso di un congresso internazionale di sociologia del lavoro, partendo da recreation e da work. I partecipanti sono arrivati all’unanime conclusione che, domani, la parte essenziale del lavoro sarà svolta da macchine e robot; la parte propriamente umana del lavoro non potrà essere assunta se non comporterà un contenuto intrinseco di gioco, di divertimento e di piacere. Non si è ancora trovata una traduzione che restituisca bene l’idea del termine reckworking: lavogodere è un equivalente accettabile ma non interamente soddisfacente. Si può anche immaginare la parola ricrea-lavoro o ancora giocavare.

Si potrebbero distinguere tre epoche nella relazione uomo-lavoro.

• la prima epoca era quella del dovere, lavorare era un obbligo non solo di sopravvivenza, ma anche morale, che conferiva a chi lo compiva rispettabilità e perfino una certa santità;
• la seconda epoca ha visto prevalere il regime del contratto: l’individuo scambiava talento e competenza in cambio di uno status e di una retribuzione. I vecchi valori d’identificazione con l’azienda, gli straordinari e le pratiche da portarsi a casa nei fine settimana, apparivano come cose del tempo andato;
• la terza epoca corrisponde alla crisi economica e all’irresistibile ascesa del Giappone, che hanno determinato una riscoperta dei valori, contrapposta da una fortissima esigenza di realizzarsi attraverso il lavoro.

Non si tratta, in realtà, di un semplice piacere edonistico di consumo, ma di un piacere legittimato dal suo allineamento con i valori dell’organizzazione.

L’UMANESIMO IN AZIENDA

In un mondo che cambia rapidamente facendo saltare punti di riferimento validi, si avverte la necessità di riscoprire quei valori che costituiscono, da sempre, una certezza nella vita di tutti i giorni. La rivalutazione della sfera personale e intima è la cosa più utile da farsi e questo, per quanto riguarda il mondo delle aziende, s’identifica nel cosiddetto Umanesimo aziendale?

Il patrimonio di un’azienda è, ovviamente, anche costituito principalmente da quelle persone che decidono di impegnarsi, di condividere e fare propria la visione aziendale e di mettersi in gioco.
Mansionari, job description e quant’altro portano spesso i dipendenti di un’azienda a sentirsi poco motivati e considerati.

L’Umanesimo aziendale spinge verso la definizione di nuovi sistemi in grado di dare peso e valore non soltanto al lato economico, ma anche ad altre variabili quali l’ambiente di lavoro, il clima aziendale, lo sviluppo del personale e la qualità della vita.
I collaboratori in azienda hanno bisogno di sentirsi realizzati, di sfide e riconoscimenti del loro contributo. Non si è più alla ricerca di paghe oneste per oneste giornate di lavoro, ma si ambisce piuttosto a opportunità che consentano di trascorrere giornate di lavoro eccezionali.

Dr. EMANUELE TINTO

mercoledì 16 febbraio 2011

un po di cultura Giapponese

NEMAWASHI
(根回し)
nella cultura giapponese è quel processo informale che silenziosamente sostiene le fondamenta di qualche cambiamento o progetto pianificato, parlando con le persone che se ne occupano, dando loro supporto e consigli, in maniera continuativa. È considerato un elemento importante in ogni grande cambiamento prima che ogni passo formale venga effettuato, ed il nemawashi di successo permette cambiamenti effettuati con il consenso di tutte le parti.
Nemawashi letteralmente si traduce con "lavorare attorno alle radici", dalle parole 根 (ne, radice) e 回す (mawasu, muoversi intorno [qualcosa]). Il suo significato originale era letterale: scavare attorno alle radici di un albero, prepararlo ad essere trapiantato.
Il Nemawashi è spesso citato come un esempio di una parola giapponese difficile da tradurre efficacemente, perché strettamente correlata a quella cultura.

HANSEI
Hansei (反省 – auto-riflessione) è una delle idee centrali della cultura giapponese. Il suo significato è quello di riconoscere i propri errori, riflettere su di essi e di cercare il miglioramento da essi.
Hansei significa anche festeggiare il successo con modestia ed umiltà. Se il hansei si ferma, si ferma anche l’apprendimento. Uno che pratica hansei non diventa mai convinto della propria superiorità in quanto pensa che ci sia sempre lo spazio per ulteriori miglioramenti.

KAIZEN
l Kaizen (改善) è una metodologia giapponese di miglioramento continuo, passo a passo, che coinvolge l'intera struttura aziendale. Il termine Kaizen, infatti, è la composizione di due termini giapponesi: KAI (cambiamento) e ZEN (meglio)
si basa sul principio che detta le fondamenta di questa 'filosofia': "L'energia viene dal basso", ovvero sulla comprensione che il risultato in un'impresa non viene raggiunto dal management, ma dal lavoro diretto sul prodotto. Il management assume dunque una nuova funzione, non tanto legato alla gestione gerarchica quanto al supporto dei diretti coinvolti nella produzione.